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sabato 29 marzo 2008

Facciamo un pò di controinformazione...prossimo appuntamento le "eco cazzate sanitario-alimentari"


segue da "O mio Dio, mio figlio è un raver! "
scritto da Daniele Memola


Come spesso accade in Italia, oramai non è un mistero ai più , si grida allo “scandalo” a tragedia già consumata. Succede per la guida in stato di ebbrezza e le relative “stragi del sabato sera ( o di tutti i giorni? n.d.r), per l’emergenza rumeni di oggi, ex albanesi, ex sudafricani di ieri, per il bullismo, per le baby squillo etc etc..

In generale, è sempre la solita dinamica; scappa il morto, i riflettori dell’informazione si accendono e la politica, sull’onda emotiva che i “casi” scatenano o meno nella società civile, si attiva con le controproposte per arginare il fenomeno. Soprattutto in una fase così delicata come quella elettorale. In questi giorni sull’overdose di Nunzio Mattia Lo Castro, Tia per gli amici, diciannovenne stroncato dalle pasticche il giorno di Pasqua in un rave party a Segrate si è sollevato l’ennesimo teatrino politico–informativo.

Sgomento, grida d’allarme, balletti di cifre sui consumi di droga tra i giovani e un improvviso interesse sul fenomeno rave, queste “feste” misteriose, dove tutti si drogano restando a ballare “sospesi” in mondi paralleli come tanti zombi per giorni e giorni senza mai fermarsi.

Facciamo un po’ di chiarezza o almeno un tentativo. A partire dal significato del termine “rave party” che in inglese significa letteralmente “delirio” in senso più ampio. Il free party (tanto per dare una definizione meno ostica) indica la voglia comune di svincolarsi da qualsiasi regola, sociale e non, ricercare attraverso una musica altrettanto libera o comunque “non convenzionale” (la techno) perchè priva di strumenti o spartiti ma fatta di suoni elettronici provenienti dalla realtà urbana campionati e mixati al computer, una sorta di libertà fisica e mentale.

Ballando certo, drogandosi pure. Andare a un rave, significa non solo andare a manifestazioni il cui accesso è gratuito, (contrariamente alle discoteche tradizionali dove occorrono soldoni per entrarci, altri per consumare un cocktail e fondamentalmente trovare lo stesso schifo che si trova a una “festa”, con la differenza dei lustrini e delle cubiste) ma evadere in todo. Dimenticare per una attimo la dura realtà: del lavoro, della situazione familiare, di un amore finito, delle piccole e grandi delusioni che ognuno può avere, specie quelle particolarmente dure che non si riesce a comprendere da non adulti..

Certo “articiale” è il metodo, sintetica come le droghe con cui si accompagna, la non realtà che si “vive” nelle feste illegali. Già illegali ma perché? Prima negli Usa, poi in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, la nascita del fenomeno rave legato al consumo di droghe e la conseguente repressione che ne è seguita, ha fatto sì che le “feste” fossero organizzate fuori città, nei boschi, in mezzo alle campagne, o in capannoni industriali dimessi (come per recuperare quello spazio che nessuno si sentirebbe di darti).

Illegali perché non autorizzate ufficialmente quindi, non perché diverse da una ordinaria serata sballo nelle discoteche “ufficiali” dove si accalcano ogni week end centinaia di ragazzini con tacito consento di mamma e papà. Gli stessi che a frittata fatta scendono dalle nuvole chiedendosi com’è possibile? “Mio figlio…era un bravo ragazzo che non faceva male ad una mosca”.

Beh, cari genitori, insegnanti, educatori, psicologi, sociologi, politici. Basta vedere le file interminabili che si creano nei bagni di quest’ultime per capirci un po’ di più su cosa accada realmente al loro interno ( a meno che si tratti di un’epidemia viscerale improvvisa che coglie tutti all’improvviso). Chetamina, (anestetico usato dai veterinari per addormentare i cavalli), popper, acidi e mdma, speed, cocaina e chi più ne ha più ne metta girano ovunque, non soltanto tra gli zombi dei rave.

E poi al rave, udite udite non vanno solo tossici o disagiati mentali: c’è quello di sinistra, di destra, di centro, c’è l’operaio che si spacca la schiena per pochi euro a settimana come il figlio del professionista, del poliziotto; lo studente dell’università pubblica e quello che fa il master da 40mila euro; il ragazzo “ribelle” e la ragazza della porta accanto. Insomma tutti, senza distinzione di alcun genere.

Probabilmente gli stessi che vanno alle Street Parade, quelle sì rave istituzionalizzati, autorizzati da questo e quel Comune, perché magari promotori di un messaggio “politico” o molto più semplicemente mezzo di “sensibilizzazione” su un particolare tema del momento.

Ma allora, come si può fare a fermare “la rave generation” prima che il problema venga sommerso di nuovo dalla polvere, o fino a quando non ci sarà un'altra madre che piange ripetendo la stessa domanda?

Alla politica l’ardua sentenza. Di sicuro parlare di autorizzazioni non ha senso, visto che i rave sono assembramenti clandestini (dove e quando ci sarà la festa si sa anche mezz’ora prima tramite tam tam di sms o con l’infoline, magia di libertà creata da Internet, anch’essa realtà virtuale e incontrollabile per ironia della sorte).

Di conseguenza anche intervenire preventivamente sui luoghi prescelti ( a meno che non si possa mobiliate centinaia di pattuglie delle forze dell’ordine spargendole per le campagne, i boschi e i capannoni di mezza Italia) diventa difficile se non improponibile. E poi anche quando Polizia, Carabinieri o Guardia di Finanza dovessero imbattersi in 10mila persone collassate in una “festa” che già dura da giorni che possono fare? Spegnere i muri di casse che sparano la musica a tutto volume? Deportarne tutti e 10mila, completamente strafatti? Fino a prova contraria i luoghi scelti per i rave (“Taz” che sta per Temporary autonomous zone), sono “zone temporanee autonome”, cioè di nessuno ma “mie” per la durata del rave. Del resto non c’è da dimenticare che in Italia c’è il diritto di riunione.

E non è vietato l’uso della droga per sé, ma è punito lo spaccio. Nemmeno li si può stringere, come ormai avviene per tutto, nelle ganasce fiscali o dei balzelli che già soffocano altre attività legali, perché dietro ai rave non c’è impresa, non esiste chi si arricchisce e chi si impoverisce. E’ cultura dello sballo allo stato puro. Fuga dalla realtà e dai suoi problemi, a cui,che ci piaccia, prima o poi si torna. Almeno fino a quando il “down” dell’ennesimo acido non ti permette di ritornarci più.

Daniele Memola, giornalista freelance


Leggi il primo articolo: "
O mio Dio, mio figlio è un raver!".

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